Livecity

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19 September 2004 / No Comments

Intervista ad Andrea Pagani

– Ciao Andrea, intanto come è nostra consuetudine chiedere, dai un’introduzione di te stesso e della tua musica.

Beh, sarò lapidario: ancora non so per quale motivo ho iniziato a suonare!
E’ la verità, visto che fino a 14 anni praticamente…odiavo la musica. Poi da un giorno all’ altro ho iniziato ad appassionarmi prima alle tastiere e poi al pianoforte, cominciando a studiare incessantemente, per recuperare il tempo perduto. Dapprima suonando musica leggera e poi scoprendo il Jazz, il Funk, il Blues e la musica classica. Ho anche studiato e suonato il sax alto, che però giace da alcuni anni nella sua custodia, in attesa di essere riaperto, un giorno o l’altro. Insomma, da un gioco è nato un hobby e da un hobby un lavoro, che insieme alla composizione e all’ arrangiamento occupa gran parte della mia vita.

– Come mai questo attaccamento alla musica Nera, Blues e Jazz? Da dove è nato?

Mi accostai al Jazz ascoltando la musica leggera che più si avvicinava a quelle sonorità. Soprattutto quella anni 50/60, dove, frugando tra i dischi impolverati dei miei, rimanevo affascinato dagli arrangiamenti “swinganti” e armonicamente curiosi dei brani di Buscaglione, Carosone, Bruno Martino e Gino Paoli, per poi passare in tempi più recenti a Sergio Caputo, Lucio Dalla e Pino Daniele. Tutta musica italiana? Ebbene si. Si vede che ai miei piaceva! Ma c’erano anche Ray Charles, Frank Sinatra e i Platters, per fortuna…
Poi scoprii il Jazz, il vero Jazz. E allora Monk, Parker, Davis, Gillespie e compagnia bella, comprando dischi su dischi, cercando di capirci qualcosa, di imparare i temi, il fraseggio, le strutture, i suoni.
Ciò che più mi rapiva, al di là delle note, era quest’ atmosfera calda e ricca, dissonante e piena, nera e misteriosa, e di una libertà espressiva che non avevo mai sentito in nessun altra musica. Dal Jazz, sconfinai per curiosità e passione, negli altri generi della musica nera, come il Blues (tutto viene da lì), il Soul, il Funky e anche la Disco del periodo d’oro.

– Dalle tue esperienze Live con Roberto Ciotti nella House of Blues d’Italia, il Big Mama, alle registrazioni studio con lo stesso Ciotti e in altri progetti. Cosa ti dà di più e dove hai trovato maggiori difficoltà.

Tutto mi ha dato e mi da qualcosa. Ogni esperienza professionale, che sia per gli altri o per sé stessi, contribuisce a farti crescere e ad aggiungere qualcosa al tuo bagaglio. Soprattutto poi, quando si ha a che fare con artisti come Roberto, da sempre dediti alla volontà di comunicare, rinnovarsi e ricercare senza compromessi il massimo della qualità, sia dal vivo che in studio.
Le difficoltà si incontrano sempre, ed è un bene che sia così. Perché la musica è un universo infinito, ed ogni volta che pensiamo ingenuamente di aver trovato la chiave, rimaniamo spiazzati e vinti, di fronte alla sua complessità e mutevolezza.
Poi, più se ne ascolta e meno si riesce ad afferrarne il suo segreto.

– Con gli U.s.Z. hai dato vita ad un progetto interessantissimo, di fusione tra il Jazz e il Funky: pensi che in Italia presto si potranno produrre a livello di massa dischi di questo genere?

Magari! Non aspetterei altro! Ma temo che aspetterei due-trecento anni (il che me lo auguro), per vedere poi la stessa situazione che vedo oggi…
Scherzi a parte, penso che purtroppo in Italia e nel mondo, la musica di massa rimarrà sempre la più insipida, finta ed effimera, per il semplice motivo che non tutti hanno la voglia e il tempo di acculturarsi e di cercarsi la propria musica, rimanendo così vittime consenzienti del Music Business, che altro non aspetta per rifondere le proprie casse e proporre nuove e meteoriche PopStar.
Con gli U.S.Z. , io e Giggi Pezzi ci siamo proposti sin dall’ inizio di non farci condizionare da nessuna regola del mercato. Sapevamo bene che eravamo e siamo nella nicchia (anche se non sappiamo quale…) e di conseguenza era inutile snaturare il nostro progetto facendolo confluire su chissà quale tendenza del momento, per poi pentircene amaramente qualche mese dopo. Così abbiamo pensato di fare un disco che piacesse a noi due per primi, e che avesse una sincerità artistica, che nel tempo rimane, successo o non successo.
Del resto il titolo “Vita Iners” fa capire che ce la siamo presa “comoda”, dando alla musica tutto il tempo necessario, senza pressioni o ingerenze da parte di nessuno. Alla fine, comunque, anche il “box office”, nel suo piccolo, ci ha dato qualche soddisfazione, raggiungendo quasi le duemila copie, che per un disco strumentale in Italia, non è poco.

 A proposito, che ne pensi di come vanno le cose da noi, quanto a musica, a livello generale.

Si parla sempre di crisi, ed è vero. Si lamentano tutti, ed hanno le loro ragioni. Ma alla fine ben poco cambia, e chi ha voglia di farlo, o sparisce o viene inglobato dai pesci grossi e siamo daccapo a dodici.
Il problema del mercato discografico è che nessuno rischia più nulla, tranne qualche raro caso. I discografici se la fanno sotto a proporre qualcosa di nuovo, e così siamo diventati una colonia del mondo angloamericano, e di tutto ciò che ha successo all’ estero e può essere rivenduto senza brutte sorprese nel nostro paese. Non esistono più i produttori o i talent scout che sondano il terreno e girano i locali alla ricerca di nuovi artisti, sono solo impiegati che eseguono e cercano di tenersi il più possibile stretta la sedia.
Per quanto riguarda la musica dal vivo, stesso discorso. Nessuno si azzarda più a chiamare artisti che potrebbero lasciare la sala semivuota, e si ripiega sempre di più sul gruppo che attira la massa. Da ciò scaturisce il dilagare di innumerevoli cover band, che rifanno in maniera spesso maniacale il repertorio di artisti noti (ed anche meno, ormai), richiamando così la folla dei fans dell’ originale, che hanno perciò l’ occasione di sentire a metà prezzo, le loro canzoni preferite.
La musica , in questo modo, si ripiega su sé stessa.

– La crisi discografica è venuta per la cattiva qualità dei prodotti, oppure è venuta prima la crisi, e poi di conseguenza si è puntato su fenomeni musicali più o meno discutibili (per usare un eufemismo…)?

E’ il cane che si morde la coda. Temo però che le cause primarie della crisi siano l’elevato prezzo dei cd e l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione, come il computer e internet. Oggi si vendono cifre ridicole rispetto a vent’ anni fa, ti danno il disco d’oro con poche decine di migliaia di copie. Una volta si arrivava al milione e oltre, e c’era il vecchio e caro 45 giri che costava poco e vendeva tanto. Oggi il disco come oggetto ha perso il suo valore simbolico, non è più un oggetto “magico”. Si masterizza, si copia, si sente alla radio, si scarica in Mp3.
Si è anche ridotto nelle dimensioni, e le copertine non hanno più il fascino dei vecchi vinili che potevi appendere al muro…
Però non penso che la causa sia stata la cattiva qualità dei prodotti, anzi, si sono viste e sentite delle boiate nel passato che hanno riempito le tasche di parecchi!
Mi sembra più logico che per fare fronte alla crisi, come dicevo, si punti sul facile e sul banale.

– Hai lavorato molto nel settore, e ci sei dentro a pieno titolo. Dai i voti ai seguenti addetti ai lavori e dai un aggettivo: Produttori Discografici, Turnisti, Autori, e Manager.

Non mi sento di dare voti, né di generalizzare troppo. Per i produttori rimane quello che ho detto prima; per i turnisti, ce ne sono di eccezionali nel nostro paese. Per gli autori, ahimé, penso che ve ne siano molti interessanti, ma quelli che sentiamo, spesso risentono dell’ influenza discografica, a discapito della creatività e della libertà. Tranne gli autori consolidati, che riescono ad imporre la loro firma e la loro personalità, beati loro…
E i manager? Lasciamo perdere, non vorrei farmi passare il buon umore…

– Che dischi hai da consigliare ai nostri amici visitatori? Dacci un paio di dischi “storici”, e due nuovi.

Heilà, due e due così su due piedi? Farei troppo torto agli esclusi…
Facciamo così: te ne dico tre che mi fanno ancora venire la pelle d’oca quando li ascolto e sono: “You must believe in spring” di Bill Evans, “How long has this been goin’on” di Sarah Vaughan, accompagnata da Oscar Peterson e Joe Pass, e “People Time” il più grande disco in duo che abbia mai sentito, con Stan Getz e Kenny Barron.
Di nuovo…beh…l’ ultimo che ho comprato è “Never die young” di James Taylor…ma è del 1988…sono un po’ arretrato…

– Progetti in atto? Quando uscirà e come sarà il disco solista, e come lo stai realizzando (autoprodotto? in quali studi?).

In progetto c’è il nuovo disco di Roberto Ciotti, al quale stiamo lavorando da tempo, un disco in duo con il clarinettista Piercarlo Salvia, fatto di sperimentazioni estemporanee, e il mio primo disco da solista, che si intitolerà “For the sea”, e uscirà in primavera-estate prossima.
Quest’ ultimo, vedrà la partecipazione di numerosi ospiti, tra cui una big band, una sezione d’archi, una cantante, sassofoni, chitarra, percussioni, oltre alla consolidata ritmica del mio trio. Ci saranno composizioni originali e due noti standards, riarrangiati in chiave Soul e Funky, il tutto con il tema del mare, mia grossa fonte d’ispirazione anche quando non c’è, e me lo immagino al di là della stanza.
Sarà un disco del tutto acustico, e, a differenza delle molteplici sovraincisioni di “Vita Iners”, sarà registrato “live” in studio. Ho finito da poco di arrangiare i brani e fare i provini e spero che verrà fuori un buon prodotto, che rispecchi il mio modo di comporre, arrangiare e suonare. Ancora non so dove lo inciderò e con quale etichetta uscirà, sto prendendo contatti, anzi, se qualcuno fosse interessato…(non si sa mai)

– Simpaticamente, uso una celebre domanda del goffo Marzullo: “fatti una domanda, e datti una risposta… e sfrutta l’opportunità!”

Beh, mi domando ogni giorno se sia il caso di cambiare mestiere, e mi rispondo ogni notte che ci penserò…domani!

A cura di Federico Armeni